Biografia

Le Stanze Di Clara

Nel primo libro del De Rerum Natura Lucrezio, trattando della materia e del vuoto, fissa il principio che nulla nasce dal nulla, nulla può esistere senza seme . Se così non fosse ogni specie potrebbe generarsi da tutte le cose, gli uomini dal mare, gli esseri squamati dalla terra, venendo meno alla legge (in parte smentita dalle forzature sperimentali della biogenetica) che vuole a ogni cosa appartenere una misteriosa facoltà, un etereo processore che fa sì che quella cosa sia quella e non altra. Un determinismo solo apparente, in quanto proprio nel mistero della natura e nella ineffabile casualità delle combinazioni a cui (atomi o anime o sentimenti) siamo globalmente sottoposti sta la libertà dell’individuo e del mondo.

Nulla nasce dal nulla anche nel lavoro – polimorfo, eclettico, trasmigrante – di Clara Bartolini, che scivola dall’urgenza incontenibile di dare forma al pensiero, come condizione prima del suo stesso agire, alla leggerezza in apparenza facile della sua rapidità esecutiva.

Tanto è lineare il percorso concettuale della sua ricerca, nel diversi modi in cui si manifesta, dalla poesia alla drammaturgia, dalla fotografia all’assemblage polimaterico, dal design alla pittura tout court, tanto sfuggente appare il filo conduttore che raccorda questi, pur coesi, ambiti espressivi.

Per comprenderne le ragioni unitarie occorre spostare lo sguardo alla persona e ripercorrere brevemente le tappe di una biografia che ha le carte in regola per diventare un racconto letterario alla Isabel Allende.

Clara Bartolini nasce a Venezia, e il mare, simbolo per eccellenza del divenire e della mobilità, del panta rei, entra nel suo Dna, come inarrestabile dinamismo intellettuale: Venezia “bella anche nella brutta stagione” crea le basi per una visione mai monolitica e sempre plurale della realtà.

Una visione quantomeno bipolare, si direbbe, in cui la formazione universitaria filosofica e psicologica apre a un approccio non formalistico, anzi sempre dettato dall’esigenza di comunicare attraverso la forma, da intendere al servizio dei contenuti, o meglio, ripescando le antiche categorie crociane, cercando una sintesi compiuta tra l’idea e il linguaggio in cui esprimerla.

La famiglia di Clara è l’origine di questo bipolarismo, poi coniugabile in termini zen di fruttuoso conflitto tra ying e yang. La famiglia, primo bacino a cui attingere stimoli e sollecitazioni: allevata nella musica che il padre medico e fotografo le fa ascoltare, vede crescere in lei una “misura musicale” che si fonde con l’approccio scientifico del nonno che da ateo studia la religione attraverso la Bibbia. E aprendo i cassetti scopre montagne di fotografie del padre, mondi e suggestioni che si sedimentano nel suo immaginario come strati geologici. Per contro, dalla madre, maestra di Reiki (anche Clara lo diverrà) capace di percezioni extrasensoriali, assorbe una particolare sensibilità istintuale, che autorizza l’abbandonarsi a tutto ciò che è estraneo alla razionalità in senso stretto, stimola una curiosità per mondi diversi e misteriosi, non inquadrabili dalla scienza. Dalla nonna pittrice e viaggiatrice riceve una spinta al nomadismo, all’attenzione per realtà culturali remote e lontane. Da questo microcosmo ricco e invasivo, certamente non facile per una ragazzina che potrebbe sentirsi persa e piccola nella sua aurorale inconsapevolezza, Clara accumula – per citare ancora Lucrezio, semi. Semi che germogliano fin da subito come poesia, che comincia a scrivere a dodici anni: possiamo immaginare che nella poesia, forma la più privata e intimistica di espressione, possa trovare un canale segreto e sofferto in cui far navigare i vascelli della sua piccola anima ricettiva e spaurita. Tant’è vero che la poesia rimane per molti anni la sola forma espressiva “alta” a cui si concede, preferendo dirottare la sua vis creativa in ambiti professionali in cui questa è finalizzata, e si direbbe protetta, dietro le forme commerciali della moda: fa infatti per un breve periodo la stilista e poi, per la fotografia e la pubblicità, diventando stylist e set designer.

Dobbiamo aspettare il 1984 per un esordio più specificatamente artistico. Clara Bartolini crea in quell’anno le “Scarpe scultura” disegni a matita su carta in cui riesce con leggerezza e molta ironia a indirizzare quel patrimonio di conoscenze e sensazioni fino ad allora affidato esclusivamente alla parola. In quelle scarpe femminili il contesto culturale e il tessuto sociale sono allusi, illeggiadriti o espressi per simboli, come nella scarpa gabbia che imprigiona, contiene, ma, in quanto calzatura, fa camminare, a indicare l’ambivalenza della maschera in cui la donna ha vissuto per secoli, una maschera che separa, ma al tempo stesso difende.

Al 1996 appartiene una seconda serie di lavori incentrati sul tema dell’identità, di un ubi consistam tutto da ricostruire per l’uomo e per la donna, ancora incapaci di gestire la differenza e di riconoscere la parte che dell’altro esiste in ciascuno: figure scure, ancora informi, in ambienti spogli e alienanti, tratteggiate a pennello che presentano solo dettagli colorati in rosso, ma sono senza volto proprio perché ancora in cerca di una sostanza che dia forma.

Il viaggio ondivago di Clara prosegue quindi con i lavori più astratti e segnici, ma non per questo meno densi di stratificate ragioni ideative, della serie sull’energia, gestuali quasi, e liberatori, traccia di un moto che scaturisce dall’energia, dalla forza oscura che alberga in ciascuno di noi, e che spinge per fuoriuscire, energia anche negativa ma che occorre saper liberare per stabilire possibili equilibri. È questo un momento di snodo, direi quasi di non ritorno a partire dal quale Clara procede verso una ricerca di minore descrittività: il lavoro diventa più complesso e si presenta sempre più come la traccia trasposta delle sue riflessioni. Ci riferiamo ai ready made, agli assemblage denominati “People” realizzati con oggetti comuni o spezzoni di oggetti recuperati e immersi in una dimensione comunicativa che con gesto quasi rituale Clara assembla e riconcilia, investendoli di una forma estetica. Una scelta linguistica che in un certo senso asseconda la sua anima dadaista, il suo gusto un po’ alchemico per la trasmutazione degli oggetti, espressa in precedenza nel design (i “Totem”, lampade fatte di strati di oggetti diversi riconvertiti a svolgere una funzione d’uso) e nella cosiddetta “Arte da mangiare” (utensili tradotti in opere creative come il mattarello che diventa un flessuoso cilindro affettato). Senza dimenticare che l’assemblage è una messa in scena, un set immaginifico in cui immettere l’esperienza maturata in anni di scenografia. E le consente poi di esprimere con più forza il disagio e il senso di precarietà dell’essere umano che si sta trasformando in macchina, quasi un essere bionico che cerca nella realtà appigli per non perdersi. E in fondo le fa sentire di aver salvato un pezzetto di realtà dalla tirannide dell’utilità e del consumo, realizzando qualcosa di visionario in cui si affaccia un momento del “grande racconto” di cui tutti siamo interpreti e spettatori.

Infine la fotografia, l’altro rivolo in cui confluisce il bisogno di realtà e di mistero tra cui si muove la sua ricerca. Il mistero “necessario per far sì che la vita non sia un’autostrada”, il mistero che riguarda i volti dei suoi ritratti, che molto dicono con l’intensità dello sguardo e i tratti della fisionomia, ma molto di più lasciano di non detto, in cui reale e inconnu si fondono, appena disvelati dall’intervento dell’artista che offre una chiave, la sua chiave per cogliere ciò che sfugge: l’ineffabile che attiene al reale non meno del reale stesso.

Maria Luisa Caffarelli